Storia e temi del Movimento Preraffaellita

Riunitisi in Confraternita, a Londra nel 1848, i Preraffaelliti intendono opporsi all'arte accademica, riacquistare il senso etico dell'operare dei primitivi e, nel contempo, esprimere contenuti della modernità; connota le loro prime opere un linguaggio vivido e analitico, in bilico fra una tensione molto determinata verso il dato naturalistico e la predilezione per materiali storici e arcaizzanti, nutriti di emozioni romantiche.
Attenti ai problemi sociali, interessati al mondo della scienza, sono insieme astratti e respinti dal progresso tecnico: pensiamo al rapporto indubbiamente condizionante con la fotografia, o alla polemica allarmata e premonitrice contro lo sviluppo dell' industrializzazione. Non è facile chiudere in definizioni calzanti un fenomeno, rivelatosi presto eterogeneo per l'apporto invero differenziato dei tre protagonisti (Dante Gabriel Rossetti, William Holman Hunt, John Everett Millais), cui si aggiunge il contributo,di un artista della generazione precedente: Ford Madox Brown. 
I primi tre - associatisi ntorno ai vent'anni in nome di una imperiosa, anche se generica, volontà di ribellione, con atteggiamenti che ricalcano, in qualche modo, le diatribe dell'eroe prediletto da Rossetti, William Blake - erano dominati dall'ansia di liberarsi dalla tirannia dell'esempio post-rinascimentale, dall'uso "sporco" del colore nella pittura ufficiale, dalla trivialità di molta produzione contemporanea ed erano ansiosi di qualificarsi socialmente, cercando magari avalli autorevoli, quale quello di John Ruskin che, nel 1851, si ergerà a loro difensore contro le aggressioni della critica.
La denominazione esprime, ovviamente, il rifiuto di Raffaello e di tutta quell'arte che, per realizzare "la bellezza", ha tradito "la verità", e sottende una consapevole emulazione della pittura primitiva anche se Holman Hunt mirerà a minimizzarne l'influsso, affermando, come principio base del preraffaellismo, un ritorno alla natura "tout court". Gli elementi arcaizzanti, in realtà, rimarranno a lungo importanti nel solo Rossetti, ma è sulle due polarità di naturalismo e primitivismo che si gioca, all'inizio, l'avventura preraffaellita.
Concetti ambigui entrambi, anche se determinanti nel creare uno stile che caratterizzerà (negli anni fra il 1850 e il 1860) un nutrito gruppo di artisti, riconoscibili per un vago medioevalismo di temi e di gusto, o per la tecnica del fuoco ravvicinato sui particolari e per l’uso di colori puri, per l’aspirazione a trattare in modo prosaico soggetti poetici, storici o religiosi, o per la scelta di episodi di vita contemporanea negli epigoni della Confraternita spesso tratti quasi di peso dalle pagine più sentimentali di Dickens e di Trollope.
La grande qualità che si individua talvolta nell’opera di Rossetti e Burne-Jones può dirsi assente in quell’aspetto del preraffaellismo che adotta la fedeltà rigorosa all’evento "naturale" o celebra una quotidianità che include la coscienza di vivere nell’era del suffragio universale, del liberalismo e della democrazia.
Pittura interessante, ma priva di quel senso di sintesi in grado di illuminare la forma che si ritrova in altri fenomeni, magari meno determinati sul piano dei contenuti, ma capaci di affermare i principali simboli della contemporaneità come sostanza della vita moderna.
Fin dall’inizio degli anni ‘50, all’interno della compagine preraffaellita si manifestano vistose contraddizioni, successivamente concretatesi in due indirizzi nettamente contrapposti: da un lato i cultori tenaci e sempre più ossessivi della "verità di natura" capeggiati da Holman Hunt, e dall’altra Rossetti, assorbito in un suo mondo e circondato da seguaci appassionati.
Proprio a Rossetti e all’alleanza oxoniana del 1857 con William Morris ed Edward Burne-Jones deve farsi risalire il secondo momento del preraffaellismo che, legatosi poi al Movimento estetico e all’idea dell’ "arte per l’arte", confluirà negli irrequieti ideali decorativi della fine del secolo.
Se, dal 1848 al 1860, ha adottato anch’egli uno stile minutamente neomedioevale, lo ha nutrito di personali fantasie poetiche: in particolare gli acquerelli della seconda metà degli anni ‘50, per la vaghezza di soggetti e di atmosfere, anticipano quell’arte senza storia che trionferà nei decenni successivi.
Concediamoci dunque un rapido excursus in questo mondo composito. Esso è dominato dapprima da uno stile definito anche, per il contorno rigido e la tipica severità goticheggiante, "hard edge". La sua ambizione è di esprimersi con semplicità, andando al cuore delle cose, eliminando l’ingombro di un percorso storico sentito ormai come lettera morta. Di qui prende le mosse William Holman Hunt, che rappresenta l’aspetto serio, moraleggiante del preraffaellismo: artista ambizioso, arrogante, ostinato, talvolta sgradevole, più dotato di tenacia che di autentica vocazione, vittima di un’eccessiva fiducia negli scopi etici dell’arte. Anche se risulterà poi sorprendente nell’applicare il suo eccesso di tensione al paesaggio.
Qui muove i primi passi il giovane e dotato Millais, talento emergente dei primi anni della Confraternita, per un attimo in grado di fondere il medioevalismo romantico di Rossetti e lo spirito di osservazione di Holman Hunt, ma rapidamente destinato a una parabola discendente quando abbraccerà, in soggetti sentimentali e ritratti di società, un gusto inequivocabilmente vittoriano.
Qui si affaccia, e in modo subito molto incisivo, la singolare sensitività del «misterioso e non inglese Rossetti», come lo definiva Millais, dilaniato da una duplice vocazione di poeta e di pittore: una grande ricchezza, ma anche una continua perdita di identità.
E Ford Madox Brown, il più anziano e mai effettivo componente della Confraternita, cui si devono alcuni dei più significativi quadri preraffaelliti di vita moderna.
Vediamo inoltre formarsi epigoni di qualità, da Arthur Hughes a Henry Wailis, da John Brett a William Dyce, rappresentanti — gli ultimi due — di quella pittura di paesaggio volta a fissare anche negli aspetti più dimessi «la dolce e verde terra inglese», già orgogliosamente cantata da Blake e destinata ad essere violata dall’industrializzazione.
Il mondo preraffaellita è nutrito di matrici poetiche: da Keats, a Shelley, a Browning, a Tennyson; vi dominano inoltre le grandi ombre di Dante, di Chaucer, di Shakespeare, in grado di fornire in numeri occasioni di interpretazioni figurali, spesso attraenti e inedite, come le invenzioni dantesche di Rossetti o quelle shakespeariane di Hunt o Millais.
Una sorprendente fedeltà botanica ci introduce nel linguaggio simbolico dei fiori, spesso assunti a protagonisti in soggetti poetici o di genere: squisiti parterre, visti come alla lente d’ingrandimento, tesi a fondere concretezza naturalistica e senso fantastico.
Altrove, una precisa ricostruzione nell'ambientazione e nel costume riesce a realizzare una sorta di teatro, i cui protagonisti sono gli stessi artisti, le loro donne, i familiari, gli amici, spesso calati nei panni di personaggi "romanzi", abbigliati con costumi medioevali tratti da repertori ottocenteschi: da Camille Bonnard (Costumes historiques 1829) a Henry Shaw (Dresses and decorations of the Middle Ages, 1849.
La rappresentazione degli eventi della storia del passato adombra, secondo un'attitudine ottocentesca, le idee liberali the sono nell'aria; l'attualità e invece rappresentata da temi come l'emigrazione o la celebrazione del lavoro, in un armonioso comporsi, alla Carlyle, dei contrasti fra le varie classi sociali. Si assumono episodi di quella the chiameremmo protezione civile" (un pompiere salvia le vittime di un incendio); si pone l’accento sulle ingiustizie e gli errori sociali; e la "morality" vittoriana si traduce in una serie di opere sul tema della donna caduta, o scopre la poesia del patetico nel rappresentare la fanciullezza abbandonata o nell’esprimere malinconiche riflessioni sulla morte.
La scena sacra è reinventata in modo "primitivo" o trasformata in scena di genere, mentre la tradizionale cura dei particolari si carica di una puntigliosità iperrealistica, materiata di intenzioni simboliche.
E come non citare tra le tematiche più tipiche del preraffaellismo il ritratto femminile? Si pensi alla piccola silhouette di Effie Ruskin dipinta da Millais, o alle misteriose creature rossettiane: da Elizabeth Siddal, immortalata nella grazia neostilnovista della Beatrice dantesca, a Jane Morris, il cui volto severo impersonerà una lunga teoria di spose infelici.
Dopo il 1860, come abbiamo già detto, allo stile più tipico si affianca un linguaggio diverso, definito anche, per le linee morbide e fluide, "soft edge". La sua attenzione è verso l’arte del pieno Rinascimento, che trarrà con sé il ripristino del culto dell’antico, della mitologia, della decorazione. Così, nelle immagini del tardo Rossetti (personalità chiave della svolta del gusto che conduce verso l’estetismo) balza evidente, pur assorbito in una cifra stilistica stravagante e "diversa", lo stampo del grande ritratto cinquecentesco: una manica da Raffaello, uno sguardo da Leonardo, uno spessore cromatico da Tiziano.
Il carattere decorativo dell’opera rossettiana, se non scalfisce l’impenetrabile compattezza di Holman Hunt (volto semmai ad accentuare gli elementi iperrealisti della sua arte e l’aspetto rigorosamente "storico" della sua pittura religiosa), né influisce sul destino ormai tracciato di Millais (teso a celebrare, con toni alla Velàsquez e alla Franz Hais, un decoroso gusto (altoborghese), riesce però a contagiare Ford Madox Brown, che parteciperà al nuovo clima in composizioni di gusto italiano echeggianti il Movimento estetico.
Ma, nell’ambito di un’arte nata dall’arte, a ottenere risultati di qualità sorprendente sarà soprattutto Burne-Jones, artista destinato a operare una sintesi molto personale tra lo stile romantico del medioevo rossettiano e la grande arte del Rinascimento.
Una storia, la sua, profondamente legata alla cultura italiana. Fin dall’inizio degli anni ‘60 Ruskin l’aveva condotto con sé in Italia per educano di fronte ai Giotto di Padova ma anche ai Mantegna e ai grandi veneziani. Erano anni nei quali al fascino acerbo di Benozzo Gozzoli si andava sostituendo quello più complicato e stremato di Botticelli. L’artista copiava, inoltre, le incisioni di Marcantonio Raimondi da Raffaello e i disegni di Michelangelo, e sentiva profondamente la suggestione della scultura classica, riproposta al gusto contemporaneo dalla riapertura della Elgin Collection al British Museum (1865). Quel senso di eticità che era aleggiato negli anni tra il 1840 e il 1850, e aveva reso così attraente per i preraffaelliti l’arte cristiana primitiva, è sostituito ora da altri ideali: l’arte per l’arte, il culto della bellezza, il ritorno a un classicismo nutrito di fervore romantico.
Nello svincolarsi sempre più accentuato dai contenuti, l’artista riesce a conquistare quella libertà che la dipendenza formale dai modelli gli aveva fatto ritenere, per tanto tempo,dolorosamente lontana. Anche se una vaga eredità di moralismo preraffaellita (l’aspirazione a identificare la bellezza con la verità) alimenterà un progressivo senso di tristezza e rassegnazione: poiché, come tutti i moralisti vittoriani, Edward Burne-Jones sente, alla fine, di aver fallito.
Con lui si chiude la parabola del preraffaellismo, movimento che ha ormai abbandonato l’aspirazione a trovare un linguaggio che rappresenti la vita, rifugiandosi in un sogno bellissimo ma irreparabilmente lontano da essa.

LA NASCITA DELLA CONFRATERNITA PRERAFFAELLITA
Nel settembre del 1848, dunque, Dante Gabriel Rossetti, William Holman Hunt, John Everett Millais, insieme allo scultore Thomas Woolner, al pittore James Collinson e ai futuri letterati Frederick George Stephens e William Michael Rossetti, riunitisi al n. 83 di Gower Street a Londra, fondano la Confraternita preraffaellita (P.R.B.).
Tutti, tranne William Michael Rossetti (fratello minore di Dante Gabriel), provengono dalle scuole della Royal Academy, la prestigiosa, anche se un po’ anchilosata, organizzazione nazionale dell’arte, fondata nel 1768 da Sir Joshua Reynolds e destinata a diventare uno dei primi bersagli degli strali degli studenti ribelli.
Attraverso Ford Madox Brown giungono alla Confraternita quegli ideali cristiani primitivi che avevano improntato l’esperienza dei nazareni tedeschi, diffondendo il mito del Medioevo come epoca più vicina alla natura e ad un ordine stabilito da Dio.
Fin dall’inizio dell’anno, i giovani avevano preso a frequentare un piccolo club di disegnatori, The Cyclographic Society, nel quale era consuetudine sottoporre il lavoro di ciascuno a un giudizio comune.
Inoltre, scontenti dell’insegnamento inefficace della Royal Academy, si ritrovavano nel piccolo studio di Hunt in Cleveland Street o nella casa dei genitori di Millais.
Discutendo d’arte, riesaminavano gli idoli consacrati; le riserve espresse sulla Trasfigurazione di Raffaello «per il grandioso disprezzo della semplicità della verità, gli atteggiamenti pomposi degli apostoli, l’attitudine poco spirituale del Salvatore» sono probabilmente alla base della scelta del loro nome.
L’influsso di Rossetti, figlio di un esiliato carbonaro italiano, agisce nel dare all’associazione un carattere di setta segreta, il senso monastico dell’iniziazione, la scelta del sette come numero magico. Inoltre a lui si deve la fondazione di una rivista, The Germ, intesa a rappresentare la polarità letteraria del movimento. Nessuno degli artisti conosce l’Italia, ma l’interesse per la cultura primitiva si coagula attorno alle incisioni degli affreschi medioevali del Camposanto di Pisa (nella redazione ottocentesca di Paolo Carlo Lasinio del 1812), definite da Stephens «fulcro generatore di entusiasmo per i nostri ideali artistici, fino allora abbastanza nebulosi». A esse si aggiunge l’influsso della grafica dei nazareni, dalle incisioni di Fùhrich e di Schnorr von Carolsfeld a quelle più tarde di Moritz Retzsch.
L’esempio di questi ultimi, e la loro reazione all’insegnamento neoclassico dell’Accademia di Vienna, funge in qualche modo da remoto modello, come l’ammirazione per l’arte primitiva italiana trova riscontro in idee che circolano da tempo.
Numerosi scritti teorici, da quelli di Anna Jameson (1843) a quelli di Lord Lindsay (1847), avevano risvegliato l’interesse per l’arte medioevale, condiviso da collezionisti come William Ottley o John Sanford. Il principe Alberto di Sassonia, sposo della regina Vittoria, fin dal 1843 aveva deciso di decorare il ricostruito edificio del Parlamento con opere di gusto primitivo.
Inoltre molti artisti, negli anni '40, sono influenzati dai nazareni. In un diario di viaggio in Italia (1845-46) di William Dyce si ritrovano, ad esempio, molte delle attitudini di gusto che poi saranno dei preraffaelliti: dal giudizio sfavorevole sulle opere tarde di Raffaello, alla scarsa simpatia per lo stile «turgido e architettonico» di Michelangelo, a notazioni sulla pittura senese che sarebbero potute comparire su The Germ.
Ma il vero ponte di passaggio fra i due movimenti è Ford Madox Brown, che trasmette ai preraffaelliti l’impronta della pittura nazarena, sia religiosa che di storia. A Roma, nel 1845, ha studiato le opere di Overbeck e Cornelius e, in due quadri che più chiaramente di altri echeggiano motivi nazareni — Ghaucer alla corte di Edoardo III (1845-1851) Wycliffe legge la sua traduzione Bibbia a John of Gaunt (1847-1848) —, pone le basi di quell’ "earlv christian style" che avrebbe voluto adottare come definizione della stessa Confraternita: proposta che sarà bocciata Hunt. Problema fondamentale è liberare l’arte dall’angustia di un linguaggio definito impertinentemente "sloshy", cioè fangoso, con allusione agli spessori cromatici della pittura tardobarocca e venezianeggiante in voga alla Royal Academy. Nascerà una pittura chiara, con stesure cromatiche brillanti di colori puri su una superficie bianca ancora umida, secondo una tecnica che ricorda quella dell’affresco e che in Inghilterra era già da tempo adottata nell’ acquerello.
«Andare verso la natura con onestà di cuore e camminare lei, laboriosamente e fiduciosamente...»: la definizione di Ruskin, in un famoso passo del primo volume di Modem painters (1843) sembra costituire il substrato ideologico per quel gusto della verità letterale, quel sentimento di fedeltà all’accadimento tipici del primo preraffaellismo. E sarà ancora Ruskin che, nella prima lettera al Times in difesa dei giovani (13 marzo 1852), chiarirà come il loro arcaismo, più che essere vincolato all’imitazione dell’antica pittura come tale, risponda al bisogno di tornare quell’arcaica onestà di dipingere che, dall’epoca di Raffaello in poi, è stata tradita. Il sogno primitivo dei preraffaelliti è sicuramente da intendersi come reazione a una modernità di cui giustamente diffidano, anche se l’altra polarità dei loro interessi (l’adesione al di realtà) e l’adozione di tematiche sociali li inducono a operare una strana contaminazione fra idealismo romantico, razionalismo e moralismo, che è tipicamente vittoriana. Come si può altrimenti spiegare un gruppo di artisti la cui idea di modernità è quella di dipingere il Medioevo? Ma il travestimento nel passato, da un lato per sfuggire, dall’altro per connotare il proprio tempo, è fenomeno tipicamente ottocentesco.
 
LA PITTURA DELLA CONFRATERNITA PRERAFFAELLITA
L’attività del gruppo negli anni dal 1848 al 1853 è ritmata dalla partecipazione, con alterne fortune critiche, alle esposizioni annuali della Royal Academy. Unica eccezione Rossetti che, per spirito di indipendenza, espone i suoi due olii preraffaelliti in luoghi diversi dagli altri. La vita della Confraternita inizialmente è molto intensa: gli artisti s’incontrano, discutono, lavorano insieme, compilano una bizzarra "Lista degli immortali", con al vertice Cristo e Shakespeare, e poi Giobbe, Omero, Dante, Browning, Poe e così via. Nella primavera del 1849 presentano per la prima volta le loro opere in pubblico. Rossetti, nell’aprile, espone alla Free Exhihition di Hyde Park il suo primo olio. L’adolescenza della Vergine: toni luminosi, colori chiari, linee severe, soggetto sacro e domestico insieme. Vi circola un simbolismo meno enigmatico di quello dei nazareni: vi si riflette la suggestione per i contenuti anglo-cattolici della religiosità della madre dell’artista e della sorella Christina, entrambe rappresentate nell’opera. Un mese più tardi il resto del gruppo si presenta alla Royal Academy. Millais espone Isabella e Ferdinando attirato da Ariele. La prima, tratta dalla redazione di Keats della novella di Boccaccio Lisabetta e il testo di bassilico, è un tipico esempio di medioevalismo romanzo: goticismo, assenza di sfondo prospettico, minuta attenzione alla resa fisionomica e al costume (le vesti e la pettinatura della fanciulla si rifanno alla Beatrice d’Este della Pala Sforzesca di Brera del 1494). Gli artisti, da Stephens a Deverell ai due Rossetti, prestano i loro volti ai personaggi. Il quadro di Hunt Rienzifa voti per ottenere giustizia per la sorte del fratello, ucciso in una contesa fra i Colonna e gli Orsini è tratto dal romanzo di Bulwer-Lytton Rienzi l’ultimo tribuno, la cui edizione del 1848, sembra avesse avuto una eco anche in ambiente risorgimentale italiano. È concepito sia come riflessione sugli avvenimenti politici del 1848, sia come opera rivoluzionaria dal punto di vista formale. Alla prima sortita del gruppo la critica reagisce positivamente: «Il successo della P.R.B. è assicurato scriveva Millais. Ma l’anno successivo le cose andranno diversamente. Da gennaio ad aprile escono i quattro numeri di The Germ, la rivista letteraria di cui Rossetti, insieme alla sorella Christina, è il principale animatore.
 Intanto si prepara la levata di scudi della critica che, irritata dall’aria di mistero, infastidita dalla presunzione delle formulazioni teoriche, colpirà sia Ecce ancilla Domini, l’affascinante olio di Rossetti esposto nell’aprile alla National Institution-Portland Gallery, sia Cristo in casa dei genitori di Millais, successivamente mostrato alla Royal Academy. La prima opera, connotata da una sorta di pre-simbolismo sensuale e melanconico, è un’audace composizione bianca prewhistleriana, poi definita dallo stesso Rossetti (1874) «l’antenata di tutti quei quadri bianchi, ora così di moda; ma allora c’era una ragione per quel bianco». La tavolozza è infatti in armonia con l’uso simbolico del colore, come singolare è l’aver trasposto in pittura la verticalità della contemporanea grafica a tratto. Reduce da un viaggio con Hunt nei Paesi Bassi e a Parigi, l’artista mescola il richiamo a Blake all’ammirazione per le pale d’altare fiamminghe, per gli affreschi parigini di Flandrin e Delaroche, per l’Ingres di Ruggero e Angelica. Christina aveva posato per la Vergine, William Michael aveva ispirato l’immagine dell’arcangelo. Meno originale, anche se destinato a suscitare grande clamore, è Cristo in casa dei genitori di Millais. Dominato da un simbolismo di facile individuazione, viene messo sotto accusa il clima dimesso e minuzioso, che ha declassato il tono d scena sacra. La reazione più feroce sarà quella di Charles Dickens che, in Household Words del 15 giugno 1851, definirà il quadro «repellente e rivoltante», tanto che la stessa regina Vittoria vorrà vederlo in privato per rendersi conto delle capacità provocatorie. Né migliore sorte toccherà a Una famiglia inglese convertita difende un missionario dalle persecuzioni dei Druidi di Holman Hunt, anche per l’irritazione dell’opinione pubblica che nutre il sospetto, sostanzialmente infondato, di adesione dei preraffaelliti alla Chiesa di Roma. Rossetti, violentemente colpito da un’ostilità così palese decide di non esporre più in pubblico; resiste l’alleanza tra Hunt e Millais, mentre ad alcune defezioni corrispondono nuove adesioni al gruppo (Collinson, rotto il fidanzamento con Christina Rossetti e convertitosi alla fede cattolica, si ritira in convento; si associano alla Confraternita Walter Hower Deverell e Charles Aliston Collins). Stilisticamente abbastanza diversi negli olii, gli artisti ritrovano le comuni radici in una grafica dallo stile asciutto e incisivo capitolo affascinante della storia del primo preraffaellismo. Evitando il pericolo dei temi religiosi, tornano nel 1851 Royal Academy con opere di soggetto letterario: Millais  propone Mariana da Tennyson, La figlia del boscaiolo da Coventry Patmore e Il ritorno della colomba dall’Arca, risolto come piccola scena di genere; Madox Brown manda il suo Ghaucer; Holman Hunt presenta Valentino salva Silvia da Proteo, da I due gentiluomini da Verona di Shakespeare.
In difesa dei giovani artisti si leva John Ruskin, la maggiore autorità critica del momento. Pur affermando di non conoscerli ancora bene, e diffidando di fronte alle loro simpatie per la Chiesa di Roma, non può fare a meno di apprezzare «la cura disegno e lo splendore dei colori» delle loro opere. «Essi» «non imitano la pittura, dipingono semplicemente dalla natura si sono schierati, come un sol uomo, contro quel genere d’ingnamento... iniziato dopo l’epoca di Raffaello, opponendosi in realtà, all’intero sentire delle scuole del Rinascimento, sei composto di indolenza, infedeltà, sensualità e sciocco orgogli aderiranno ai loro principi, dipingendo la natura com’è intorno a loro, con l’aiuto della scienza moderna e la serietà degli uomini del XIII e XIV secolo, fonderanno, come vi ho detto, una nuova e nobile scuola in Inghilterra». Intervento risolutivo, che si un mutamento radicale nelle fortune dei preraffaelliti. Nel 1852 Ofelia di Millais, con la sua intrigante suggesti polarizza l’attenzione per la miriade di piante e fiori ricci significati simbolici. Alcuni discendono dal testo shakespeariano il salice, l’ortica e le margherite, associati all’amore abbandonato al dolore, all’innocenza; altri sono aggiunti dall’artista cor papavero (simbolo della morte) o le olmarie appassite (segno di inutilità). Domina su tutto l’immagine spettrale di Elizabeth Siddal, una delle donne chiave della vicenda preraffaellita, a preconizzare, nell’estremo canto di Ofelia, il suo tragico destino. Si dice che, per amore della verosimiglianza, avesse indotto la modella a giacere in una vasca piena d’a riscaldata da lampade sottostanti, ma le lampade si sarei spente ed Elizabeth si sarebbe gravemente ammalata. Sicuramente meno attraente e più aggrovigliato nei significati è Il servo pastore di Holman Hunt, sempre del 1852. A una prima lettura, indicata anche dall’artista (che ha voluto rappresentare una vera coppia di pastori «invece delle bambole di con sfondi colorati in voga all’epoca») si sovrappongono bizzarre intenzioni, vista la pericolosa propensione del nostro all’allegoria e al moralismo. Da un’allusione ai rischi dell’intemperanza, rilevabile nell’aspetto rubizzo del pastore, si passa a una cri sul pagamento in natura (il barile che pende dalla sua cintura riferirebbe al fatto che spesso ai lavoratori dei campi si dava b al posto della paga). Ma soprattutto Hunt vuole stigmatizzare settarismo religioso, rappresentando «quel tipo di pastore d idee confuse che, invece di volgersi a curare il suo gregge discute questioni vane per l’animo umano» (1897). Meno faticoso è Ford Madox Brown, che tenta a sua volt pittura all’aperto con Il grazioso agnellino. Le figure immerse nell’atmosfera, il paesaggio realizzato con tecnica delicata fossero interesse esclusivo dell’artista, anche se la critica sospettò significati nascosti, blasfemi, cattolicheggianti. Nel 1865, e sintomo del mutamento profondo che hanno subito le i sull’arte, egli dirà: «Ora pochi, credo, vi vedrebbero un significato diverso da quello più ovvio.., in ogni caso, un quadro prima di tutto dovrebbe essere giudicato in sé». Ma, anche se la critica ha ormai smesso di essere aggressiva e i quadri dei preraffaelliti risvegliano l’interesse dei collezionisti per la Confraternita è iniziata la diaspora. William Michael, Rossetti non ne aggiorna più il giornale dalla metà del 1851; nel 1852 Thomas Woolner emigra in Australia; Rossetti, isolato, è dedito ai suoi acquerelli danteschi. Millais, eletto alla fine del 1853 membro associato alla Royal Academy, approda alla pittura ufficiale, e  Holman Hunt annuncia, nel gennaio 1854, il suo progetto di viaggio in Terrasanta.
«Così l’intera Tavola Rotonda si è dissolta» dirà Rossetti. In un certo senso la Confraternita era servita agli scopi: «Siamo emersi da insulti avventati ad una posizione di riconosci mento generale» dirà William Michael Rossetti nel gennaio 1853. E ciò risulta particolarmente calzante per Millais che, già da allora, gode di vasta popolarità. Poi ci saranno ancora sporadiche manifestazioni comuni: nel 1857 la mostra di pittura organizzata da Madox Brown al n. 4 di Russell Place, Fitzroy Square a Londra; la collaborazione di Hunt, Millais, Rossetti e Woolner a un’edizione illustrata dei Poems di Tennyson, pubblicati dall’editore Moxon. L’episodio più importante resta, sempre nel 1857, la decorazione dell’Union Debating Hall a Oxford ad opera di Rossetti e di un gruppo di giovani adepti, avvenimento considerato punto di partenza della seconda fase del movimento.
I SEGUACI DEL PRERAFFAELLISMO
Arthur Hughes (1832-1915)
artista modellato soprattutto su Millais, dipinse tra il 1852 e il 1863 una serie di interessanti opere, in particolare sul tema dell’amore romantico, usando il paesaggio in funzione di accentuazione emotiva delle situazioni: Amore d’aprile (1858), Il lungo fidanzamento (1854-1859), eccetera. Parteciperà nel 1857 alla decorazione degli Oxford Murals, e sarà influenzato da Rossetti in quadri di soggetto religioso: L’Annunciazione è caratterizzata da un mistico simbolismo da farsi risalire, attraverso Rossetti, anche a Blake.
Di William Dyce (1806-1864), artista scozzese antesignano dapprima e poi seguace dei preraffaelliti, ricordiamo Il primo saggio di colore di Tiziano (1856-1857), dipinto, sotto influsso delle loro idee e della loro tecnica, con estrema evidenza naturalistica.
Una breve influenza preraffaellita è anche nell’opera di Henry Wallis (1830-1916). La morte di Chatterton (1856), che celebra il suicidio del diciottenne poeta, è quadro molto popolare. polemico nei confronti dell’incomprensione che la società riserva agli artisti. L’interesse per l’aneddoto letterario si mescola al gusto di un elaborato "tableau vivant". Una grande intensità di esecuzione invita lo spettatore a indagare ogni particolare: l’orgoglio di Chatterton nel gusto per le belle vesti, il senso del tempo che passa nella candela che si consuma, e così via.
Lo spaccapietre (1857), sempre di Wallis, è quadro socialista. Esposto alla Royal Academy nel 1858 senza titolo, ma con una lunga citazione dal Sartor Resartus di Carlyle, è una delle poche opere preraffaellite che adotti un tema di estrema denuncia sociale. In un paesaggio melanconico, lo spaccapietre giace morto su un mucchio di sassi; con la sua sgradevole e sacra solennità, è esempio importante di creatura umana sacrificata e oscura anche nella morte. «Venerabile è per me la dura mano, contorta, rozza... Venerabile anche il volto rugoso segnato dal tempo...» aveva detto Carlyle. Sorta di pendant di Chatterton, le due opere sono complementari anche alla luce delle teorie di Carlyle, che aveva individuato due tipi di uomini da onorare: quelli che lavorano a conquistare la terra per l’uomo e i pensatori ispirati.
Per contrasto lo stesso tema, trattato da John Brett, ci presenta un grazioso giovanetto con accanto un cagnolino in un paesaggio ampio e rassicurante. Il messaggio sociale, se mai ce n’è stato uno, è del tutto stemperato in una situazione idilliaca, di rustica innocenza. Non possiamo evitare che il nostro pensiero corra a Gli spaccapietre di Courbet (1849).
Si potrebbero aggiungere altri nomi e altri titoli: quello di Henry Alexander Bowler, autore de Il dubbio: potranno vivere queste spoglie? (1855), un’opera di delicata meditazione funebre da collocarsi in una tradizione pittorica, legata alle Elegie di Gray, di fanciulle in meditazione in chiostri e cimiteri; o quello di William Lindsay Windus che, in Troppo tardi (1857-1858), dipinge il ritorno dell’innamorato, roso dal rimorso, quando l’amata sta ormai morendo.
  LA PITTURA DI PAESAGGIO
Il paesaggio preraffaellita, dipinto direttamente dal vero. trattato con precisa adesione a principi ruskiniani, con un taglio mai convenzionale del punto di vista e un sensibile parallelismo allo sviluppo della fotografia, è capitolo di grande interesse. Il rapporto luce-ombra, che aveva fornito la struttura fondamentale da Claude Lorrain a Constable, è sostituito da un rapporto diretto tra i colori, effetti brillanti di luci diurne, ombre colorate e predominio di colori locali.
Ford Madox Brown vi coglie, in modo attento, il fascino della quotidianità: Un pomeriggio d’autunno inglese: Hampstead (1852-1855), con le ombre lunghe di fine ottobre, la luce bassa sulle masse di fogliame in distanza, lo sfondo ampio cui giunge I persino, mescolato alle sagome delle nubi in cielo, il fumo della vicina Londra, è trascrizione felice di uno scenario semirurale.
L’impegno di Holman Hunt a dipingere all’aperto, diretta mente sulla tela, ogni particolare in vista alla piena luce del giorno, balza in piena evidenza ne Il gregge smarrito (Le nostre coste (inglesi) (1852). L’opera, al di là dei sovrattoni biblici, è quadro di mare, coste, pecore e piante illuminate dalla luce del sole, con uno studio di colori riflessi che impressionerà persino Delacroix. quando lo vedrà all’Esposizione Universale di Parigi del 1835. «Sono stordito dal gregge di Hunt!» esclamerà, attratto dall’equazione innovatrice di colore-luce. Mentre il curioso notturno de Il Ponte di Londra, in occasione delle nozze del Principe di Galles (1863-1868) è pieno di umori hogartiani nel rendere la folla londinese in una scena di storia contemporanea.
L’amore per le teorie ruskiniane sulle leggi della bellezza, insieme a un preciso interesse per la geologia, trova la sua realizzazione più tipica nei paesaggi di John Brett, artista dotato di una ricca informazione scientifica e dedicatosi poi attivamente in vecchiaia, all’astronomia.
Ghiacciaio di Rosenlaui (1856) è singolare per la resa di un piccolo tratto di natura innevata: le rocce di granito e "greiss" sono percorse in ogni curva, mentre ciascuno dei sassi in primo piano è trattato come perle o «montagne in miniatura», secondo quanto dirà John Ruskin. E Valle d’Aosta, altro tipico esempio di realismo preraffaellita, sarà definito dal critico, per la sua precisione, «più opera dello specchio che dell’uomo».
Anche Millais, nei paesaggi giovanili, riflette uno specifico interesse per situazioni botaniche e geologiche, ponendo in evidenza licheni, sassi, striature di rocce; successivamente manipolerà la natura, come elemento pittoresco, in soluzioni più rapide e larghe.
Tra le trascrizioni più originali del metodo preraffaellita in inedite rappresentazioni paesistiche sono i rossastri olii orientali di Holman Hunt, come La piana di Israele dalle alture sopra Nazareth (1870-1877), o acquerelli come La piana di Rephaim dal monte Sion (1855-1861), in grado di cogliere la struttura del terreno, profondamente inciso da strade, muri e acquedotti, e dominato da alti orizzonti e cieli vuoti. Anche ne La Sfinge di Giza (1854) la monumentale scultura sarà trattata come un fenomeno geologico.
Ma il più «crudelmente preraffaellita» dei paesaggi di Terra-santa, come dirà Madox Brown, è La valle di Josafat di Thomas Seddon, esempio estremo dell’attenzione alla pura fisicità dell’e vento naturale: arida tela violetta e ocra, dai toni quasi allucinati in virtù di una sorta di mancanza di atmosfera e di una puntigliosa precisione topografica, tanto da essere d’accordo nel definire il suo autore «il più puro pittore preraffaellita di paesaggio» (A. Staley, 1973), vista la capacità di comunicare la sensazione della realtà con un’esecuzione del tutto impersonale. Ruskin porrà Seddon tra i preraffaelliti «prosaici», più importanti per lui, dato lo spirito scientifico dell’epoca, di quelli (poetici), ritenendo egli primario individuare la verità più che dare campo all’immaginazione. A saldare infine l’uno e l’altro aspetto in una sorta di magico equilibrio sarà William Dyce con Baia di Pegwell: ricordo del 5ottobre 1858 (1858-1860), uno dei paesaggi preraffaelliti più belli. In una visione di grande precisione geologica, dominata da un cielo solcato dalla cometa Donati, egli riesce a trasfondere il senso della solitudine della natura, confortata da un rapporto solidale con l’uomo.
LA SECONDA STAGIONE DEL PRERAFFAELLISMO
Nel 1853 la confraternita preraffaellita cessa di esistere come gruppo; nel 1860 si può considerare conclusa la prima fase del movimento. Rossetti è ancora figura dominante nel decennio 1860-1870; successiva mente il declinare delle sue condizioni di salute e la stravaganza dei suoi atteggiamenti lo condurranno a un progressivo isola mento, mentre, dopo la prima esposizione alla Grosvenor Gallery del 1877, emerge vistosamente il talento di Burne-Jones.
IL RITRATTO ROSSETTIANO
Tornato dal 1859 alla pittura ad olio, Rossetti dipinge quasi esclusivamente ritratti femminili, un’iconografia che siglerà gli ultimi vent’anni della sua vita con una presenza sempre più incombente, quasi a seguirne la drammatica parabola. L’aver individuato per primo quello che diventerà uno dei motivi chiave della cultura decadente e simbolista è fatto di indubbia portata storica. Il prototipo inaugurato da Rossetti, reso sognante da Burne-Jones, algido da Khnopff, giungerà, non senza aver lasciato un’impronta nell’opera degli artisti più diversi, da Whistler a Solomon, a Grane, a Beardsley, fino alla cultura della Secessione e a Klimt. E si potrebbe aggiungere, com’è dimostrato dall’evocazione della donna rossettiana ne Le surréalisme spectral del’eternel féminin préraphaélite di Salvador Dalì (1936), che persino i surrealisti riscopriranno in lei quella qualità «imbambolata, allucinata delle cere», come dirà Praz, a loro congeniale. E trasmigrerà, infine, nello schermo d’argento del cinema: Theda Bara, sesso di celluloide e ardori artificiali, potrà vantarla come lontana ascendente.
Nata dalla poesia, che, in quelle forme della sensitività amorosa derivatele da Dante e dai poeti stilnovisti, è stata la sua prima matrice, l’immagine rossettiana della donna si rivela, al di là delle derivazioni culturali, riflesso di un’inquietudine inesorabile, garanzia di assoluta originalità. William Morris ne evidenzierà l’aspetto decorativo, Swinburne la caricherà di elementi di perversione e lussuria, Pater la rifletterà nella sua definizione della Gioconda, la donna ideale di Leonardo dall’ambiguo sorriso: «Una bellezza che, all’interno, s’imprime sulla carne, deposito cellula per cellula di strani pensieri, fantastiche divagazioni, passioni squisite»; e ancora la ritroveremo in Wilde, Yeats, D’Annunzio. I volti delle modelle cambiano con gli anni, ma finiscono per somigliarsi tutti, in una tipologia sempre più alienata da ogni rapporto con il reale. La formula, incoraggiata anche da un collezionismo sempre più esigente e condizionante, avrà molta fortuna, pur se la ragione dell’insistere, in modo così abnorme, su quell’unica nota non può non corrispondere a una ossessione reale che, nelle molte variazioni, arriverà a risultati di stravagante manierismo.
Al suo interno Rossetti individua una linea poi assunta dall’Art Nouveau, utilizza metafore espressive poi tipiche del linguaggio simbolista, opera infine una svalutazione di contenuti sentimentali tardoromantici, immettendovi elementi allarmanti e sconvolti, quasi anticipazioni di marca espressionista.
Così, se da un lato suo erede diretto è Burne-Jones, che esalta, nell’incanto di un sogno estetico, la nostalgia della bellezza, dall’altro lato l’ultimo Rossetti prelude agli stridori di Strindberg e di Munch, che con le loro immagini tormentate aprono ai problemi dell’angoscia e dell’eros moderni (La Madonna di Munch, 1894, ricalca iconografie rossettiane, da Beata Beatrix a Monna Vanna, mentre opere come Pubertà mostrano un’eco dei ritratti della Siddal). Dapprima sono immagini sensuali, immerse in elementi decorativi, affacciate a nicchie circondate da fiori dal pesante profumo: Bocca baciata (1859), L’amante di Fazio (1863), Venus Verticordia (1864-1866), dominate dall’enfasi con cui sono trattati i capelli, spesso ispirate ai lineamenti della bionda Fanny Cornforth, in quegli anni governante della casa e sua amante. A determinarle concorrono una serie di elementi: dallo stretto rapporto con Whistier (con il quale è giunto da Parigi quell’ideale dell' "arte per l’arte" che, attraverso il culto baudelairiano della bellezza, ha creato l’immagine della "femme fatale") all’amicizia con Swinburne (divenuto l’aedo della nuova religione: nel saggio su Blake del 1866 formulerà un virtuale manifesto dell’estetismo), alla rottura con Ruskin (sempre più avviato verso rigide intransigenze moralistiche). La fiducia nel momento estetico sembra ormai vitale nel clima inibito della cultura vittoriana.
Ma per lo stesso Rossetti il tema della bellezza per la bellezza è destinato rapidamente a divenire soffocante. Una vasta serie di volti, tutti troppo belli (L’Amata del 1865, Monna Vanna del 1866, Regina Cordium del 1866), contrasta con il tono sempre più drammatico che assume la sua vita alla fine degli anni ‘60.
A ridare alimento alla sua immaginazione attraverso un’infatuazione erotico-idealizzante sarà Jane Morris, l’antica Ginevra degli affreschi di Oxford, nella quale s’incarna ancora la donna ideale.
Le morbide malinconie di Reverie (1868), Mariana (1870), Pia de’ Tolomei (1868-1870), il grande abbandono di Beatrice ne il sogno di Dante (1871), l’intrico squisito de Il sogno a occhi aperti (1880) non sono che alcuni esempi di quel processo di distillazione del reale nei simboli privati dell’artista: meditazione idealizzata e remota, che connota i ritratti della donna negli anni ‘70. Mentre una serie di studi, eseguiti durante un comune soggiorno a Kelmscott Manor culminano con Proserpina, la dea dell’ade dal melograno in mano, triste immagine di sposa prigioniera. E sarà sempre il suo volto a ritmare il percorso degli ultimi anni della vita dell’artista, dilaniata da crisi alterne di eccitazione e depressione.
Il violento attacco di Robert Buchanan, ne La scuola sensuale di poesia (1871), contro il basso livello morale dei poeti preraffaelliti Swinburne, Morris e soprattutto Rossetti, fa assurgere quest’ultimo a simbolo della depravazione dell’epoca e dell’im-moralità del pensiero estetico. E, se la critica successiva ha visto l’artista come rappresentante del momento estetico e influenza dominante del decadentismo degli anni ‘90, ora egli sembra guardare con inquietudine e timore alla spinta diffusa verso l’estetismo.
Negli ultimi anni, agli olii tornano a mescolarsi i disegni: diventa tipica una grafia curvilinea, che ora nasce dal palmo della mano de La donna della Fiamma (1870), ora esce dal vaso di Pandora (1871), ora proviene dalle lunghe fiaccole, anch’esse simili a fiamme, che incorniciano il volto di Astarte Syriàca (1877).
Siamo così giunti alle figure imponenti che incarnano i tardi miti dell’artista, immagini clou di un percorso che, partito da un clima primitivo, è giunto a un visionarismo nero. Grandi icone profane, dagli occhi tetri, dalle labbra smisurate, che incombono con fattezze manierate e sconvolte a un tempo: immagini comunque molto importanti per la deformazione tardoromantica dei tratti. Come se il cloralio, la droga che Rossetti prende dall’inizio degli anni ‘70, l’avesse indotto, finalmente, ad esprimere il furore represso nel suo eros e le sedimentazioni ancestrali delle sue opere. I giochi di curve diventano sempre più complessi: pensiamo a La beata donzella (1875-1878), estrema stilizzazione, percorsa da sotterranea nevrosi, delle fantasie dolcemente morbose di un’antica lirica giovanile. E il ciclo degli amanti è fitto di coppie allacciate che traducono nella forma del cerchio l’idea rossettiana dell’unità originaria, riconquistata dagli innamorati solo con la morte.
Ma ormai le angosce che percorrono la sua mente non riescono più a liberare, nel linguaggio dell’arte, la tragedia che ha sconvolto la sua vita. E, prigioniero dei suoi fantasmi, l’artista è un uomo finito, molto più vecchio dei suoi anni, quando muore il giorno di Pasqua del 1882.
William Morris (1833-1896) e Le Arti Applicate. Il sodalizio tra William Morris e Edward Burne-Jones era iniziato a Oxford intorno al 1853. Di ricca famiglia londinese l’uno, figlio di un piccolo corniciaio di Birmingham l’altro, coltivavano una comune passione per il Medioevo, alimentata da un’iniziale vocazione religiosa. Ma era bastato un viaggio nel nord della Francia nel 1855 le cattedrali gotiche dell' Ile-de-France, i capolavori del Louvre, il fascino della Messa Alta a Beauvais a barattare la vocazione religiosa con quella artistica. Il loro entusiasmo per la poesia, lo stile primitivo, l’architettura gotica, era pari al loro odio per la rivoluzione industriale, il materialismo, la modernità Leggevano Keats, Shelley, Tennyson e Chaucer, consultavano i codici miniati alla Bodleian Library; scopriranno La morte di Arthur di Malory.
Attraverso le opere di Ruskin conoscono l’esistenza dei preraffaelliti e sono colpiti dall’aspetto romantico del medioevalismo di Rossetti. Sedotti dal suo fascino, dal 1856 si trasferiscono a Londra, in quello che era stato Io studio dell’artista a Red Lion Square. Studio bizzarro, pieno di armamentari di antichi cavalieri, di incisioni di Dùrer, di mobili «intensamente medioevali, tavoli e sedie come incubi e succubi», come dirà Burne-Jones, anticipazione della Red House di Hupton, l’abitazione medioevale di Morris, e primo passo verso l’idea di tradurre le possibilità decorative del Medioevo nelle arti applicate.
«Dimentica le sei contee coperte di fumo dimentica gli sbuffi di vapore e i colpi di pistone dimentica l’estendersi della spaventosa città» dirà con lucidità premonitrice William Morris ne Il paradiso terrestre, testimoniando la sua opposizione all’industrializzazione. Nel 1861 questi fonda la "Morris, Marshall, Faulkner e Co.", che diventerà poi "Morris e Co.", con l’intento di recuperare la lettera e lo spirito dell’artigianato medioevale in antitesi alla brutalità della produzione industriale. Burne-Jones ne diviene il primo e più importante progettista: sarà il più fecondo disegnatore di vetrate dell’Inghilterra vittoriana, ma anche altri artisti partecipano all’impresa, da Rossetti a Madox Brown ad Arthur Hughes. La Firm produce inoltre arazzi, tappeti, carte da parati, maioliche, mobili, gioielli, metalli lavorati, generando una vera e propria rivoluzione del gusto. La famosa frase di William Morris: «Non avere nulla nella tua casa di cui tu non conosca l’utilità, o non riconosca la bellezza» portò a un mutamento nella decorazione degli interni, e diventerà il grido di battaglia dell’Arts and Crafts Movement.
Morris è anche poeta, e i progetti per edizioni illustrate dei suoi libri, da La difesa di Ginevra (1858) a Il paradiso terrestre (1868-1870), alimentano la sua passione di editore. L’impresa si rivelerà un successo dal punto di vista commerciale, ma l’artista rimarrà deluso nella sostanza, perché si accorgerà di «provvedere al sudicio lusso dei ricchi» mentre i suoi manufatti risultano inavvicinabili alla gente comune.
Come Ruskin, anch’egli si orienterà verso il socialismo e, negli anni ‘80, si getterà con energia nella lotta politica. Alla fine della vita fonda la Kelmscott Press, realizzando il Kelmscott Chaucer (1896), «il più bel libro del mondo», come dirà Yeats, mirabilmente illustrato da immagini straniate e simboliche di Burne-Jones.
EDWARD BURNE-JONES (1833-1898)
Singolare per l’intensità e la penetrazione operata sui grandi modelli, Burne-Jones è il più importante artista inglese dell’ultimo Ottocento, e il suo influsso in patria e nel continente è stato grande. Dedicatosi alla pittura piuttosto tardi, dopo aver superato i vent’anni, inizia a operare nell’ambito di un primitivismo influenzato dalla grafica rossettiana, a metà fra Medioevo e astrazione decorativa, sintomatica di un’elusione sempre più radicale di matrici protopreraffaellite e volta ad anticipare gli ideali estetici degli anni ‘60.
Un incontro con Frederick George Watts, nel 1858, lo pone in contatto con i sogni utopici del più anziano maestro, che coltiva una grande ammirazione per l’arte classica e ha stabilito la sua linea ispiratrice lungo un percorso che si snoda da Fidia a Giotto a Tiziano. Sospinto anche da Ruskin che ne ha individuato il talento e vuole contrapporre al gusto troppo medioevale di Rossetti un ideale di «grazia e tranquillità classica», il giovane artista decide di affrontare un viaggio in Italia.
Se finora i preraffaelliti hanno sognato e interpretato la cultura italiana attraverso le mediazioni più varie (lo stesso Rossetti, nonostante le origini, non verrà mai in Italia), Burne Jones affronta un impatto diretto sia con l’arte primitiva sia con quella dei grandi secoli.
Il viaggio (1859) è dedicato a verifiche sull’arte medioevale (dagli affreschi del Camposanto di Pisa a quelli di Giotto), ma l’artista è attratto da quattrocentisti come Ghirlandaio, ed è colpito dall’opera di Botticelli, ritenuto ancora in Inghilterra maestro minore, ma destinato a divenire di lì a poco componente determinante del suo stile.
Tornerà in Italia nel 1862, e questa volta in compagnia di Ruskin, intenzionato a educarlo sugli esempi della grande pittura veneziana del Cinquecento, interesse dominante nella cultura inglese di quegli anni. L’attenzione di Burne-Jones si appunta specificamente su artisti a lui congeniali, come Carpaccio o Giorgione: l’uno per la lontana eco di Medioevo unita a un incanto narrativo, l’altro per la simbologia moderna e polisemica, e per il prevalere di atmosfere cromatiche sottili che si leghe ranno, nella sua opera, al clima estetico degli anni ‘60. Se l’eco di Carpaccio si ritrova nel ciclo dedicato alla Storia di San Giorgio (1866-1867), il giorgionismo costituirà un’attitudine che corre lungo tutta la sua pittura, esplicandosi in modo suggestivo in quadri fondamentali della maturità come Le chant d’amour (1868-1877), espressione, al livello più alto, della fusione fra climi giorgioneschi e mondo medioevale romantico.
All’interesse per la cultura italiana si affianca la suggestione della scultura antica: unico dei preraffaelliti ad essere toccato dal revival classico, la sua pittura in alcuni momenti ne conosce gli algidi ideali -il Ciclo do pigmalione (1868-1878), l'Annunciazione (1879), La scala d'oro (1876-1880) -, ma l'origine preraffaellita consente alla sua rielaborazione dell'elemento classico, proprio perchè attuata nel quadro di una tradizione non classicheggiante, una assoluta libertà da componenti accademiche.
Dopo il terzo viaggio in Italia, nel 1871, si aggiungono prepotentemente suggestioni da Mantegna e da Michelangelo: In particolare il classicismo michelangiolesco diverrà punto di riferimento preciso della sua arte: La ruota della fortuna (1875-1883) a Venus Discordia (1878), ad alcune delle tele del ciclo di Perseo (dal 1875).
Altro elemento chiave del suo mondo poetico è l'ispirazione letteraria. Si può dire che non ci sia sua opera che non nasca da una suggestione letteraria: si va dal Medioevo di Malory e Tennyson a quello di Froissart e di Chaucer o del Roman de la rose, mentre il mondo classico è evocato attraverso i miti ovidiani di Fillide e Demofoonte, Cupìdo e Psiche, Pigmalione, spesso mediati attraverso Il paradiso terrestre di Morris. Del grande poema, che raccoglie una serie di leggende classiche, nordiche e medioevali, inserite in una cornice narrativa alla maniera dei Canterbury Tales di Chaucer, i due artisti avevano progettato un’edizione illustrata, mai realizzata; ma il ricco nucleo grafico, prodotto da Burne-Jones negli anni fra il 1865 e il 1870, costituirà un patrimonio fantastico e una riserva di energia poetica cui attingerà per tutta la vita.
Inoltre c’è una continua osmosi fra opera pittorica e opera decorativa. Fin dalla fondazione della Firm di Morris, Burne Jones ne è divenuto il primo sostegno. Molti dei suoi quadri derivano da disegni per illustrazioni o vetrate, o sono tradotti in arazzi, o nascono come progetti per decorazioni d’interni magari mai terminati: Il Ciclo di Cupìdo e Psiche, per la sala da pranzo di George Howard a Palace Green Kensington, terminato poi da Walter Crane; o il Ciclo del Perseo, progettato per la sala da musica di Lord Balfour e rimasto incompiuto. A volte, come nel caso del Ciclo della rosa selvatica, sarà l’artista ad adattare a una decorazione d’interno (un salone nel castello di Buscot Park, Faringdon, Berkshire) una serie di quadri concepiti autonoma mente.
Sono gli anni nei quali nascono grandi dimore: pensiamo a quella di Frederick Leyland, l’armatore di Liverpool, che con l’aiuto di Murray Marks, Norman Shaw e più tardi di Whistler (ricordiamo la famosa Stanza del Pavone) creerà, al numero 49 di Prince’s Gate a Londra, uno degli interni più singolari dell’epoca, cui Burne-Jones partecipa con varie opere, da Le quattro stagioni a Il giorno, La notte, Il vino di Circe.
Lo stile dell’artista è il risultato di una saldatura di elementi eterogenei: nel Ciclo di Pigmalione coesistono il soggetto classico e il linguaggio mutuato da esempi italiani (da Botticelli a Michelangelo), ma il tutto è stemperato in un’atmosfera medioevale di amore cortese; ne L’incantesimo di Merlino (1874) al soggetto medioevale reinventato con sensitività romantica si mescolano elementi di matrice classica (il panneggio della veste di Nimue), ma tutto è riassorbito in uno squisito clima decorativo che, anche attraverso, il linearismo dello sfondo, prelude all’Art Nouveau. Ne Lo specchio di Venere (1878) un gruppo di fanciulle in pepli classici, inserite in un paesaggio vulcanico vagamente leonardesco, si specchiano in una polla d’acqua circondata dai fiori, minuta-mente dipinti alla maniera preraffaellita. Ne Le Graie (1892), dal Ciclo di Perseo, la citazione delle statue di Afrodite e Dione, dal frontone occidentale del Partenone, è inserita in un brumoso, fantastico highland scozzese.
Stile composito, alla cui realizzazione l’artista dedica l’intera vita. Il possesso delle testimonianze del passato lo aiuta a riscoprire l’unico valore in cui crede: lo stile. Ma il percorso della sua arte è la storia tormentosa di un’iniziazione.
Dal 1870 al 1877 Burne-Jones vive un periodo di concentrazione e sofferto isolamento: le dimissioni dalla Old Watercolour Society (di cui era membro fin dal 1864) e l’attacco di Buchanan alla scuola, preraffaellita e soprattutto a Rossetti, accentuano il senso di solitudine. I viaggi in Italia del 1871 e 1873 sono intrapresi con la speranza di riprendere fiducia. Al ritorno dirà: «Ora amo soprattutto Michelangelo, Luca Signorelli, Mantegna, Giotto, Botticelli, Andrea del Sarto, Paolo Uccello e Piero della Francesca... Mi sembrano così pieni di quell’ispirazione che ho sempre cercato!». Dovrà difendere Michelangelo dagli attacchi di Ruskin che, in una conferenza a Oxford del 1871, aveva bollato «la carnalità nera» dell’artista italiano, attribuendogli la responsabilità della crisi dell’arte: «Il disegno di Michelangelo, quel motto fatale, era garanzia di morte» aveva detto. Burne-Jones, nonostante lo ami, non defletterà dalle sue scelte: i due rimarranno amici, ma l’antico sodalizio artistico, come era del resto accaduto per Rossetti, era finito.
Un ultimo omaggio al ricordo della vecchia intesa è la testimonianza di Burne-Jones — molto faticosa per lui a favore di Ruskin nel processo intentato a quest’ultimo da Whistler nel 1878. Whistler, accusato dal critico di aver chiesto per il suo quadro Notturno in nero e oro «duecento ghinee per gettare un barattolo di vernice in faccia al pubblico», lo aveva denunciato. Vincerà la causa, accettando l’indennizzo di un penny che da allora porterà attaccato alla catena dell’orologio; ma il grave danno economico subito lo costringerà, poco dopo, a dichiarare bancarotta.
Nel 1877 Burne-Jones diventa improvvisamente famoso dopo la prima esposizione della Grosvenor Gallery. Sorta per iniziativa di Sir Coutts Lindsay (banchiere e amatore d’arte, sposato a un’ereditiera della famiglia dei Rothschild), per dieci anni la galleria sarà punto d’incontro nevralgico per gli artisti non aggiogati alla Royal Academy (l’ambiente arieggiava un palazzo italiano del Rinascimento: la porta d’ingresso palladiana era stata trasportata dalla demolita chiesa di Santa Lucia a Venezia, i pilastri dell’interno provenivano dalla vecchia Opéra Comique parigina). L’artista vi espone sette opere, tra le quali L’incantesimo di Merlino e Lo specchio di Venere, con enorme con senso. I critici parlano di strana mescolanza di spiritualità gotica, grazia classica, saldezza formale italiana; anche il difficile gusto di Henry James sarà conquistato. «Abbiamo già visto» dirà «quei volti femminili dalla mascella forte, dalla grande bocca, che la scuola preraffaellita inglese ha importato dalla Firenze primitiva venticinque anni fa... e nell’opera di Burne-Jones ne troviamo la rappresentazione più alta».
Il successo della prima esposizione si ripeterà nelle successive e, dopo l’Esposizione Internazionale di Parigi del 1878, la fama dell’artista si dilaterà internazionalmente. Anche se il suo gusto estetico attraeva gli strali della satira: George du Maurier divertiva con i suoi disegni i lettori di Punch, attaccando la patetica eleganza delle figure alla Burne-Jones; W.S. Gilbert, ispirandosi alle sue teorie di donne che scendono le scale, scriveva il libretto per l’opera Patience. L’artista era dotato di humour e reagiva con benevola indifferenza: la sua popolarità aveva creato una vera e propria moda.
«Ci si meraviglia che questo sordido secolo possa avere tali sogni da realizzare» dirà G.B. Shaw. Arte lontana dai problemi reali, animata dall’aspirazione a credere, in un’epoca di perdita di valori, nella forza di un messaggio estetico. Del resto anche l’amore per il Medioevo sarà sempre lontano in Burne-Jones dalla coscienza sociale immessavi da Morris. Forse la consapevolezza di un mutamento irreversibile nella sua epoca alimenta, per contrasto, il suo desiderio di un ordine senza cambiamenti.
I risultati della sua arte diventano sempre più preziosi. Pensiamo a Laus Veneris, che insieme a Le chant d’amour sarà esposta alla Grosvenor Gallery nel 1878. Nella prima, una molteplicità di fonti letterarie (da Tieck a Morris a Swinburne) genera un clima sensuoso, mentre matrici formali (da Botticelli a Mantegna, persino al Piero della Francesca di Arezzo) sono assorbite in un grande sogno decorativo che prelude al gusto della fine del secolo.
In Le chant d’amour domina una rapita malinconia, una sensazione di musica appena suonata e che si ascolta in silenzio, come se se ne palpasse ancora l’eco. «Tutte le arti aspirano alla condizione della musica» aveva detto Walter Pater né La scuola di Giorgione (1877).
Gli ultimi vent’anni della vita dell’artista sono dedicati a opere sempre più grandi, poveri sostituti degli affreschi che avrebbe voluto dipingere nella Firenze quattrocentesca.
Il Ciclo di Perseo è fra i risultati più alti. La concezione dell’eroe pagano si assimila a quella del cavaliere cristiano, e Perseo diventa compagno di San Giorgio o dei Cavalieri della Tavola Rotonda.
Dietro l’opera è ancora una volta una fonte poetica: Il destino di re Acrisio da Il paradiso terrestre di W. Morris, racconto macabro, svolgente si in una terra desertica e vuota, che induce l’artista a spingersi in luoghi densi di sortilegio e di magia. Anche se il mondo evocato è pur sempre mondo cerimoniale, dove i conflitti si risolvono in solenni rappresentazioni, la passione è continuamente corretta dalla meditazione e gli elementi visionari sono come trattenuti sotto una patina di levigata impenetrabilità. Figure tutte appartenenti alla stessa tipologia androgena, dall’intensità interiorizzata e dal gestire appena accennato, sembrano muoversi in silenzio, secondo una ritualità arcana, come se un antico mito crudele si consumasse su un pianeta remoto, con una forte componente fantasmatica.
La Serie della rosa selvatica (1873-1890), dalla redazione di Tennyson della fiaba di Perrault de La bella addormentata, è dominata da una teatralità che evoca la suggestione del sonno. Attraverso una successione di scene avvolte tutte in un’immobilità che nulla turba, il racconto si dipana sottolineato dalla presenza avvolgente della rosa selvatica (simbolo forse del desiderio erotico), mentre la bella dormiente rappresenta l’aspetto sublimato dell’amore.
Eletto Membro Associato alla Royal Academy nel 1885, l’artista nel 1893 si dimetterà, a disagio nel clima accademico. Fedele alla Grosvenor Gallery fino al 1887, esporrà poi alla New Gallery, che ne aveva ereditato la migliore tradizione.
Nell’ultima fase la sua opera diventa sempre più austera, monumentale, lontanante. Tornerà anche ai climi medioevali della giovinezza: all’amore per il Medioevo, che era stata una delle sue prime idee guida, è dedicato il grande mosaico romano della chiesa di San Paolo dentro le mura. «Non potrei fare a meno della cristianità medioevale» egli dirà. «L’idea centrale di essa, e tutto quello che vi si accomuna, hanno fatto l’Europa nella quale siamo: l’entusiasmo e la devozione, la cultura e l’arte, l’umanità e la poesia, l’abnegazione e le splendide imprese, delle quali la razza umana non potrà mai essere privata.., tutto appartiene a essa». Progettato nel 1881 e incompiuto alla morte dell’artista, consta della decorazione del catino dell’abside con il tema della Gerusalemme celeste e della Gerusalemme terrena e di due arconi antistanti con L’albero della vita e l’Annunciazione. Evoca la grande tradizione bizantina medioevale in modo immaginifico, con occhio spaesante e moderno. Non c’inganni l’apparente rispetto dell’antica convenzione strutturale, né l’omaggio a una tecnica che ha avuto il suo splendore in epoche remote: dal brillio del fondo oro emergono figure calate in una réverie pseudomistica, in grado di reinventare, in termini di svuotante mistero, un’intera tradizione formale.
Singolare è l’iconografia dell’Annunciazione, impostata sul vuoto, i due personaggi avulsi da qualsiasi connotazione ambientale, gli elementi insoliti intorno. La presenza di Cristo vi è segnalata in più modi: Cristo è l’acqua, è la montagna, è il pellicano che, secondo la tradizione, si apre il petto per nutrire i suoi piccoli.
L’albero della vita obbedisce, anche come collocazione, a una ragione simbolica: entrando in chiesa non lo si vede, il mistero della sofferenza si svela solo quando ci si avvicina all’altare. Cristo crocefisso all’albero della vita è iconografia medioevale, ma il rapporto albero-croce è più antico: la croce è simbolo precristiano con significato di vita. Nella parte absidale, ispirata all’Apocalisse di San Giovanni, Cristo in trono è l’«axis mundi»: regge nel cavo della mano la terra, e ha il sole e la luna ai due lati e ai piedi l’arcobaleno e le quattro fonti che indicano le quattro direzioni dello spazio. L’arcobaleno è legato all’acqua e al suo potere fecondatore: elemento primordiale, la cui funzione è quella di generare e abolire le forme (ritorno al tempo della creazione). Dodici angeli, infatti, separeranno le acque di sopra dalle acque di sotto, scoprendo il firmamento e dividendo la Gerusalemme celeste da quella terrena.
Nella parata di personaggi della parte inferiore, realizzata postuma, sono curiosamente rappresentati — per volontà del fondatore della chiesa R.J. Nevin committenti, personaggi pubblici, autorità religiose, amici e parenti. San Giovanni Cristo in trono è lo stesso Burne-Jones, Sant’Ambrogio è J. S. Morgan (uno dei committenti americani), Santa Barbara è Georgiana, la moglie dell’artista, Santa Dorotea è la figlia Margareth, San Giacomo di Spagna è Garibaldi (forse a celebrare la partecipazione inglese al risorgimento italiano), San Patrizio è il presidente Grant (uno degli eroi della guerra d’indipendenza americana), Sant’Andrea il presidente Lincoln; e poi diplomatici, religiosi dissidenti rispetto al dogma dell’infallibilità papale, e tanti altri: un’aria, insomma, di vaga celebrazione liberale, certamente sovrapposta alle intenzioni dell’artista.
L’opera ebbe un notevole influsso sulla cultura romana di fine secolo: G.A. Sartorio la considerava esempio della evoluzione del movimento preraffaellita, nel quale era confluita, oltre alla tradizione primitiva, anche quella rinascimentale, e additava, attraverso personalità come Burne-Jones (la via per un risorgimento delle appassionate forme italiane». Anche il mosaico, infatti, diverrà modello per le decorazioni dei monumenti della nuova Italia, vagheggianti una classicità venata di trepidazioni, di gusto fra preraffaellita e michelangiolesco.
Siamo così giunti al bilancio finale.
Non si può negare al preraffaellismo singolarità e interesse: il fenomeno, nel suo insieme, è davvero inedito. Anche se, per gran parte, rimane connotato da una "insularità", da assumersi a sinonimo di isolamento: artisti come Hunt o Millais ne sono esempio palese. Inoltre il realismo sociale, pur curioso, non ha contenuti così espliciti da divenire ideologicamente significativo, né riesce, specie negli epigoni, a evitare rischi sul piano del gusto, correndo sul filo di un sentimentalismo aneddotico tipicamente vittoriano.
Mentre l’interpretazione rossettiana del grande ritratto rinascimentale, e soprattutto la qualità creativa immessa da Burne Jones in matrici della cultura del passato, oltre a una rilevante incisività dal punto di vista artistico, hanno rapporti diretti con aspetti cardine della cultura europea, alimentando e rappresentando fenomeni quali decadentismo, simbolismo, liberty. Potremmo paradossalmente concludere con quanto affermato nel 1893, sia pure con enfasi, dal pittore belga Fernand Khnopff (anglomane, innamorato di Burne-Jones, e responsabile di aver trasmesso attraverso la sua opera l’icona rossettiana alla Vienna dell’inizio del secolo): «Nel gran movimento di civilizzazione venuto dal sud-est, dall’India, che si dirige verso il nord-ovest, dopo essere passato per l’Asia Minore, la Grecia, l’Italia e la Francia, è venuto il momento, per gli Inglesi, di essere i più forti».
BIBLIOGRAFIA
La bibliografia sul preraffaellismo è vastissima, particolarmente in lingua inglese: chi volesse averne un’idea può consultare V.E. Fredeman, Pre-Raphaelitism, A bibliocritical study Cambridge, Mass., 1965 (in corso di aggiornamento). Inoltre possono essere utili Pre-Raphaelitism, a cura di J. Sambrook, Chicago e Londra 1974, e, per un punto di vista più recente, il catalogo della mostra londinese alla Tate Gallery The Pre-Raphaelites, Londra 1984, con volume di studi connesso Pre-Raphaelites papers, a cura di Leslie Parris. Sul piano di un’elegante divulgazione consigliamo Ch. Wood, The Pre-Raphaelites, Londra 1981, facilmente reperibile anche in Italia.
In italiano, oltre al volume di R. Barilli I Preraffaelliti, Milano 1967 (ancora acquista bile sul piccolo mercato librario), si segnalano: Th. Hilton, I Preraffaelliti, Mil 1981; M.T. Benedetti, Rossetti. Disegni,Firenze 1982; La fotografia e i Preraffaelliti cura di M. Bartram e L. Finizio (gli ultimi due in occasione del convegno rossetti: di Vasto, 1982-1983). Inoltre: M.T. Benedetti, Dante Gabriel Rossetti (con catalogo generale dell’opera), Firenze 1984; E Rossetti, Casa di Dante in Abruzzo 198L cura di C. Gizzi; W. Morris, Opere a cura M. Manieri Elia, Bari 1985; e il catalogo della mostra Burne-Jones alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma (otto novembre 1986) a cura di M.T. Benedetti G. Piantoni.
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